Lasciata Gibilterra dopo quattro giorni d’attesa per una di quelle perturbazioni che non auguro a nessuno, finalmente delle vele feci ali al folle volo. Senza radar e con due motori da 10 hp il canale è impegnativo, cargo grandi come palazzi mi danzavano intorno senza tregua costringendomi a continui cambi di rotta. Ah ! Che bello quando c’era il capitano ! Facevo tutto quello che mi diceva lui da buon marinaio ed ero sereno, senza preoccupazioni. Adesso per la prima volta tutto dipendeva da me e non riuscivo a rilassarmi. Il mio amico skipper mi aveva dovuto lasciare alle Baleari perché erano finite le sue vacanze natalizie, e così mi son ritrovato solo con mia moglie e con una barca appena acquistata in mezzo al guado. Ma al caldo ci volevo arrivare, gli amici alle Canarie mi aspettavano. Tarifa splendida come sempre mi sorrideva come una vecchia amica, capo Espartel mi veniva incontro verde e maestoso. Era la quarta volta che passavo, eppure come sempre, la porta d’Europa ti avvolge nel suo magico mistero, quanta gente è passata da qui, quanti uomini hanno incontrato il loro destino, i versi Danteschi mi rimbombavano nella testa come una musica incessante. Partendo di buon mattino sono riuscito ad uscire con la complicità della marea prima del tramonto, subito l’oceano si è presentato senza troppi preamboli, un’onda lunga quasi di poppa, figlia delle grandi basse Irlandesi ha iniziato a cullarmi verso sud, sembravano tante piccole colline danzanti che mi raggiungevano e superavano ignorandomi al loro passaggio.
Anche mia moglie a Malaga mi aveva abbandonato, meglio così, era alla sua prima esperienza e tutto il mediterraneo, per giunta d’inverno, poteva bastare.
Dopo una notte tranquilla, trascorsa in compagnia di Orione a vigilare lo scorrere delle luci delle navi, ecco che si presenta l’evento che a reso queste cinquecento miglia per me uniche ed originali. Un piccione visto a piazza San Marco fa ben poco effetto, ma in mezzo all’oceano per di più mentre si naviga in solitario è diverso. Diverso a partire dalla forma e dai colori, diverso come elemento nuovo carico di tutto ciò che la natura può esprimere in un animale capace di volare. A cento Miglia dalla costa Marocchina, dopo Secondo il mio fido Autohelm , Terzo Quarto e Quinta che erano rispettivamente una piantina grassa una testa d’aglio contro la sfiga e una cipollona che aveva germogliato alla grande e che nessuno aveva avuto il coraggio di fare a fette, perso chissà da quale harem è arrivato Sesto. Nonostante i settanta metri quadri a disposizione in principio la vita a bordo socialmente non è stata molto interessante, io ho rotto subito il ghiaccio e ho iniziato a parlare chiedendomi in primis se mai Sesto potesse udirmi, lui per tutta risposta si muoveva ai miei antipodi spostando la sua buffa testolina a scatti e fissandomi ora con un occhio ora con l’altro. Come in tutte le società che si rispettano fu il rancio che ci fece conoscere più da vicino e ignaro dei suoi gusti proposi un po’ di pane all’acqua dolce che fu subito apprezzato. Immediatamente dopo, anzi meglio dire biologicamente dopo, Sesto mi diede una dimostrazione che il suo apparato digerente funzionava alla perfezione, certo a nessuno fa piacere ma nel mio caso il passeggero era il benvenuto e questi incidenti che in banchina sono sgradevoli, in navigazione in solitario non hanno nessuna importanza. Trovato un bel gavoncello ad hoc sono riuscito a farlo accomodare nella sua suite con un pezzo di Fontina per rendergli meno fredda la nottata.
L’alta pressione che avevo visto avvicinarsi via internet in un cyber-cafe a Gibilterra e che in primis mi aveva fatto esultare, adesso iniziava a darmi qualche noia, la nafta cominciava a scarseggiare e l’idea di fermarmi in Marocco per giunta da solo, non mi allettava affatto. Di buon mattino mi ritrovai a chiedere a Sesto se secondo lui si sarebbe alzato un po’ di vento ma il suo interesse era maggiore per degli spaghetti crudi che inseguiva in mezzo agli stopper. Fu così che mi ritrovai sommerso a fare calcoli sull’ autonomia che avevo, rattristato dall’ avanzamento di soli pochi millimetri su una carta nautica che aveva una scala decisamente troppo grande. La decisione di alternare i motori fu quasi obbligata, l’unica alternativa era un’overdose di ottimismo che doveva far spazio al vento prima che la nafta finisse, ma non era il mio caso, avevo cambusa solo per una settimana e Sesto come tattico già si era perso in oceano che è tutto dire.
Scie impazzite verde plancton si incrociavano a folle velocità sotto il mio cat, erano contenti veramente loro, i delfini, si contendevano le due prue a colpi di coda come i bambini in festa che alle volte giocando raggiungono stati d’euforia incontrollata, si inseguivano e seminavano e raggiungevano all’ infinito.
Senza parole per lo spettacolo navigammo a lungo insieme per ore dividendo gioie e dolori di quella terza notte di traversata, limpida come il miele e fredda come la morte.
Fu all’alba del quarto giorno che mi resi conto che ormai non dormivo da 96 ore, anche in questo caso la decisione fu tanto obbligata quanto rapida : dovevo dormire almeno 4 ore se volevo sopravvivere sino a Lanzarote.
La veglia prima del sonno duro circa tre secondi netti, che furono comunque sufficienti per valutare come minori i rischi di una dormita di giorno anziché di notte, cavolo qualcuno mi vedrà pure con questo sole africano e 100 metri di tela a riva.
La sensazione al risveglio fu un misto di benessere e sofferenza, da una parte il corpo contento per la tregua ottenuta dall’altra il rifiuto della mente a riprendere in mano la situazione.
Sesto ormai aveva cambiato radicalmente l’aspetto della coperta, mi armai di secchio, spazzolone e buona volontà per rimediare ai danni.
Fu proprio durante l’espletazione di questo lavoro di concetto che, grondante di sudore, mi resi finalmente conto di dove mi trovavo. Forse era stato il caldo ad aprirmi gli occhi.
Fino a tre giorni fa sembrava di essere a Londra ed ora come d’incanto il caldo, quello vero, quello africano.
Lanzarote mi sorrideva all’orizzonte. Ero arrivato, c’è l’avevo fatta !