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Cose……………….Turche : diario serio di un equipaggio poco………..serio

Eppure della vela non me ne importa un granché. Voglio dire: non sono un tecnico, non conosco niente dei termini e del linguaggio, non mi interessa neanche troppo conoscerli, ho sempre nutrito una certa diffidenza verso chi popola il mondo velico, a torto o a ragione ritenuto una congerie di fighette. Però c’è una dimensione letteraria del mare e dell’andar per mare che mi ha sempre intrigato, avete presente i ricordi d’infanzia e dell’ adolescenza, Sandokan, i libri di Conrad, i corsari dai tre colori, il Capitano Nemo, Ulisse, le bettole fumose degli angiporti di tutto il mondo, e marinai ubriachi e puttane e trafficanti, insomma chi non lo sa? Forse è per questo allora che mi sono imbarcato la prima volta due anni fa (e fra l’altro al mio primo passo verso una barca mi sono rovesciato in mare da una passerella ballerina, io e tutto il mio bagaglio, e da allora ho un conto aperto con tutte le fottute passerelle del mondo, però sono tornato a galla e sono andato su quella barca!), e da allora sono tornato, quasi fosse un passo automatico, ogni anno con la stessa gente, perché il mare non è cazza-lasca e vira, abbatti e poggia, ma è prima di tutto un luogo della mente. Per questo parlerò in seguito della barca come nave, dello skipper come comandante o capitano o ammiraglio, e dell’equipaggio come ciurma o pendagli da forca, perché se no non mi diverto a raccontare.

Abbiamo dunque navigato lungo le coste della Turchia per due settimane, noi cinque uomini e tre donne, ciurma puzzona e volgarissima ai limiti del sublime, una ciurma con un comandante grande e grosso e con la canotta macchiata di sugo, marinai che in due settimane hanno travolto le barriere del surreale con un’orgia di cazzate e parole in libertà, che hanno scolato quantità industriali di birra mettendo spesso in crisi la nostra solerte cambusiera, che hanno fumato metri di sigari perché una delle cose più belle dell’andar per mare è l’aria del tramonto quando l’ancora è buttata, non si hanno più mestieri da fare, e tutti stanno sul ponte spalmati a bere birra, fumar sigari, menar cazzate come fendenti e rifarsi tutto il repertorio anni 60 e 70.

Insomma che gran bel mucchio di gente con cui spartire l’aria del Mediterraneo, che è il mare più bello del mondo, non venite a blaterare dei Caraibi, lo so che è bello, ci sono stato più di voi e so che là si va per altro, ma il Mediterraneo è altra storia. Poi dicono che in barca (in nave, sorry) sto bene e non ho gli acciacchi che ho in città, e chissà perché, non me ne frega niente della vela, ma quando torno a Trieste vado sempre a passeggio giù fra Molo Audace e Molo Pescheria, e guardo le barche all’ormeggio e mi dico questa sì, questa no, guarda questa come la tengono da schifo…

Ognuno in nave ci ha il suo bel nome da pendaglio da forca, così mi chiamano Monnezza, non è gran cosa ma non si riferisce al mio aspetto (mi par già di sentire qualche bestia dal pelo tinto che sogghigna pensando alla mia barba di cinque giorni e alle mie braghette luride, ma tutto sommato sono uomo ancora piacente), quanto perché sono l’addetto allo scarico a terra dei rifiuti solidi non organici, insomma come diceva il tipo "è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo". Poi faccio anche altri lavori pericolosi, come ad esempio scaricare l’acqua bollente della pasta in mare, cosa che è segnata dall’ urlo che batte l’una o quant’altro, (tanto non si mangia fin quando l’ancora è a bordo), e dichiara l’ora del rancio ("Signori marinai, fuori dai coglioni!"), che è l’unico comando che la ciurma indolente ascolta con attenzione, comandante incluso, perché a nessuno va di trovarsi fra i piedi un marinaio con un secchio di acqua a novantacinque gradi, né io un marinaio fra i piedi con quel secchio in mano. Poi c’erano il Pirata, il Biondo (finto), il Metrico, il comandante detto Tigre o Vipera o Commodoro delle Indie Occidentali finchè s’è scoperto che il fighetta dormiva con la mascherina nera (‘a Zzoro!), Silvia detta Silvia, Silvia detta SilviaUgoMaria e Francesca detta Francesca che è quella che tiene insieme la nave, perché senza la sua organizzazione non si capirebbe come tutta la cosa possa stare assieme.

La Turchia, ossia la sua costa sud-ovest è un posto stupendo dove ci sono boschi di pini mediterranei che arrivano quasi sull’acqua, città morte di tremila anni, tombe rupestri a mezza costa, irraggiungibili e bellissime, e l’aria eterna del Mediterraneo, che sa di storia, caldo, spezie, cicale. E la Turchia è un posto di gente amichevole, gentile, profondamente ospitale. Tanti dicevano di stare attenti, chè forse i turchi con gli italiani, chissà se gli stavamo sullo stomaco per i noti fatti. Insomma, gente, non credete alle balle, il mondo è meglio vederlo di persona e giudicare dopo, e lasciare che parlino.

La nostra nave è un bel missile bianco di quindici metri e qualcosa, si chiama "Adventure" e batte bandiera tedesca, e pare che nella sua categoria non ci sia niente di meglio. Qualsiasi cosa significhi, il comandante afferma che la nave è molto "marina", pure troppo aggiunge qualcuno. Il comandante dice che bisogna stare molto attenti, che lui avrebbe preferito una barca meno lussuosa e che la ciurma infingarda e viziata lo ha costretto. La ciurma mugugna e replica con frasi di circostanza, perlopiù irriferibili. Sembra che i turchi siano molto severi in tema del rispetto delle norme marinare, e pare che in caso di effrazione grave il capitano finirebbe in galera, mentre la ciurma sarebbe ospite coatta in albergo con piscina. Pare che la ciurma ci facesse un pensierino per diversi giorni.

Un giorno, a Tomb Bay (ricordate il nome se ci passerete, marinai alla fonda), abbiamo calato tutta l’ancora e al momento di tirarla il meccanismo di avvolgimento ha risposto con un suono vuoto. Due, tre, quattro, cinque volte. Ne consegue che ci siamo sgobbati sessanta metri di catena e ventisette chili di ancora a braccia, come si usava una volta, un metro al colpo, lega, tira, molla, lega, tira, porco qua porco là, con un’operazione complessa, che ha sferzato la ciurma nella sua totalità dalle tre alle cinque del pomeriggio, senza ombra di rancio nelle budella, ora in cui il sole turco d’agosto non fa prigionieri. Alla fine, mentre l’ancora stava per venire alla luce, sono arrivati due fighetta con una barca, e ci hanno dato una mano issando gli ultimi cinque metri. Non ho mai visto il Pirata incazzato in due settimane, ma quella volta gli girò che quei due ci negassero la soddisfazione piena dell’ultimo sforzo dopo due ore di prosciugamento, per cui urlò lungamente al comandante che li cacciasse via, che non venissero a rubarci il merito, e credo che alla fine volesse seriamente ributtare l’ancora a mare. Sarà stupido, ma anch’io l’avrei voluto in quel momento. Quella sera, ritorno a un porto sicuro, cima a terra e doppia dose di birra e whisky per la ciurma valorosa, che si raccontò le sue gesta più e più volte lungo la notte.

Doveva essere il giorno dell’eclisse, credo, perché accaddero eventi assai strani. Dapprima ci fu l’eclisse, e verso l’una tutto il mondo si colorò di una patina opaca, si levò un vento freddo per mezz’ora, e per un po’ fu possibile stare al sole senza sentir caldo e pestare il ponte della nave a piedi nudi senza cuocerli, il che stupì oltremodo la ciurma superstiziosa.

Poi, alla fonda, il Biondo prese il tender (sorry, la scialuppa) e accompagnò le donne verso un posto dietro il promontorio dove ci dovevano essere i bagni di Cleopatra o che altro ne so, mentre il resto della ciurma pensò di galleggiare a mollo nelle acque della baia per un po’. Fu in quello stato galleggiante che vedemmo rientrare il Biondo, mestamente trainato da una moto d’acqua con due tizi sopra che si premurarono di raccomandarci "You better look after him", con un piccolo cenno di rimprovero. Insomma, il tinto si era dimenticato il pieno della scialuppa e aveva pensato di strappare un passaggio, avendo dimenticato pure i remi: mezza ciurma rischiò di annegare dal ridere (e qualche giorno dopo il Biondo ci ricascò di nuovo in un’altra baia, approfittando delle tenebre per trainare la scialuppa coi denti, nuotando in silenzio fino alla nave, e facendoci giurare su chi avessimo di più caro di tacere. Ma penso che ora si possa rivelare!).

Fu più tardi ancora, mentre si stava sul ponte a scrutare il profilo delle montagne, prefigurando l’apparire di diecimila Lici in assetto da battaglia, fu allora che la divinità mi parlò. Fu dapprima un suono indistinto, ma via via sempre più chiaro, più distinto, e proveniva dal basso, da qualche cavità sotterranea.. La divinità mi parlava, mi chiamava per nome, e voleva che gli porgessi il Sacro Papiro Azzurro. Presi il papiro con mani tremanti e, come sconvolto, lo porsi. Una mano si protese dalla cavità (penso fosse l’oblò del cesso chimico, l’unico concesso dal Capitano nei porti), raccolse il papiro e scomparve nella cavità fra mille gorgogli. I miei compagni, entusiasti della rivelazione, decisero che io fossi l’Unto (in effetti, non ero al meglio) e per un paio di giorni la cosa fu questione di grandi discussioni fra i Saggi della nave. Strani e meravigliosi portenti nel giorno dell’eclisse dell’estate turca.

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Eppure il giorno più bello fu forse una giornata di porto a Fethyie, nave all’ormeggio, ciurma franca. Gran parte della ciurma optò per una visita a una spiaggia vicina, che si diceva bellissima. Sulla nave restammo io e il Pirata con il Comandante, che decise di sorprenderci. Si chiuse in cucina e ci indirizzò ad altri compiti, tipo lustrare il ponte e far acqua ai serbatoi, poi emerse verso mezzogiorno sulla coperta con un pranzo sontuoso, che ci concedemmo fra cazzeggi, bottiglie di bianco fresco, sigari e ancora cazzeggi fino alle sei circa, quando il resto della ciurma rientrò. Con un solo intermezzo, quando a metà di un’ottima pasta con tonno e olive siamo saltati sul fianco di dritta per spostare a spintoni, calci e urla una maldestra nave tedesca che stava per speronarci in fase d’ormeggio. I quali capirono senza meno da dove provenissimo, data un’occhiata non senza invidia alle nostre sontuose libagioni.

Il Capitano aveva sentenziato che, statistiche alla mano, durante gli ultimi tre giorni di crociera succedono guai e qualcuno si fa male. Successe regolarmente al Metrico, che durante una traversata si triturò la mano con quattro o cinque giri di manovella dell’albero maestro, per una manovra anticipata. Poi, fu forse all’ultimo giorno, all’ormeggio del carburante un imbecille che ci stava a poppa con un catamarano largo come Piazza Unità si rifiutò di farci spazio in manovra di allargamento, e l’onda e un vento traverso ci spinse la prua verso il molo. Il Pirata con una mossa superba piazzò un parabordo volante fra prua e molo. La ciurma trattenne il fiato un bel po’ mentre il parabordo si gonfiava a dismisura e tutti ad attendere il botto, poi la prua lentamente si staccò dal molo e tutti tirarono il fiato. Si narrò da allora che con una mossa sola il Pirata salvò la prua, un bel mazzo di soldi e probabilmente le chiappe del Capitano.

Ho ancora un po’ di impressioni di questo navigare in Turchia. Una baia di pietra mediterranea spaccata dal calore con un asino che tira un raglio terrificante sulla chiosa di un discorso del Comandante.

Una barca portoghese che entra in baia con a prua una delle più belle ragazze mai viste in giro per i sette mari, di cui io e il Pirata abbiamo lungamente parlato quella sera, con termini tipicamente marinareschi. Un oste che ci regala il più bel pensiero che potesse venir detto: "Grande è il Mediterraneo".

L’ultima notte a Marmaris, con un vento bollente che si scatenò dalla montagna per mezz’ora alla sera, e poi il canto solitario del muezzin alle cinque di un mattino immoto che sembrava venire dalle pieghe dell’ universo, le barche ferme, l’acqua ferma, nessun alito di vento, rumore, odore intorno. Non so se abbiate mai sentito il lamento del muezzin, per me è una cosa che prende dentro.

 

 

 

Sono rimasto così per parecchio, in piedi sul ponte, alle cinque del mattino, solo il lamento del muezzin che pigliava le viscere e i bagliori dell’aurora ad oriente, a sedimentare per sempre il mio ultimo ricordo di quella navigazione. E ho pensato: Ciurma maledetta, pendagli da forca, vi amo.

Mauro, mastro pattumiere e prodiere a tempo perso.

 

Racconto del "Biondo" (tinto)

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Difficile, difficile è l’unico aggettivo che trovo per definire la possibilità di aggiungere delle righe a quanto esposto da Mauro.

15 giorni raccontati non come un diario, un giornalino quotidiano, ma episodi descritti con una serenità, una poesia, una dolcezza che ti fanno rivivere quei momenti con occhi diversi, spalancati, un "vedere" ben più profondo.

Momenti che per tutti noi sono stati belli, brutti, da scazzo totale, da ripensamenti, da sogno.

Noi a guardar la vela, lo scoglio, la secca, l’ormeggio, i delfini e il panorama, Mauro invece godeva della libertà, assaporava il dolce far niente, il profumo del suo sigaro, i colori del tramonto e la freschezza della birra.

Mauro ci parla del mare come "luogo della mente", sicuramente (da appassionato totale quale sono) la vela è lo spazio che ci permette di cogliere ed esaltare questo stato mentale, non certo i "ferri da stiro" sanno creare l’atmosfera che il mare ci può dare.

Ti ringrazio Mauro, se ci sarà da navigare, ti vorrò sempre in barca con me.

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