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CAPO HORN

Capo Horn per tutti i marinai ha un significato speciale. Per noi marinai della domenica, innamorati del mare e della vela fin da adolescenti, cresciuti a Melville, Conrad e nuotate nella baia di Napoli, rappresenta la consacrazione somma dell’arte marinaresca. Un luogo sognato e temuto.

Arriva però un tempo per realizzare i sogni e il conseguente scontro con la realtà.

Primo problema: il tempo. Per arrivare fin laggiù da Napoli in barca occorrerebbero mesi.

Ma i marinai della domenica non hanno mesi a disposizione, solo giorni.

Si inizia perciò un’altra navigazione, in rete, dove si scopre che un marinaio, argentino, Jorge, aiuta a realizzare i sogni con la sua bellissima barca, che ha un nome che è un altro mito, Callas.

Lasciate famiglie, amici e cani vari con le ultime briciole di panettoni e torroni, Claudio, Giorgio, Roberto e Gabriele partiamo alla volta di Ushuaia, la città più a sud del mondo, in aereo la mattina del 26 dicembre. Dopo una tappa di poche ore nel caldo soffocante di Buenos Aires, la mattina del giorno dopo siamo a bordo del Callas, accolti dall’estate fuegina, molto più fredda dell’inverno romano, e da Cristina, la compagna di Jorge, che preparerà meravigliose zuppe bollenti per i timonieri infreddoliti.

Nel giro di poche ore siamo nel canale di Beagle, navigando con oltre 25 nodi in poppa alla volta di Puerto Williams, nell’isola di Navarino, tappa obbligata per le formalità doganali, poiché l’isola di Capo Horn è parte di un arcipelago interamente cileno.

Jorge, che ci affidato le manovre della barca con grande disinvoltura, ci spiega che è sua intenzione raggiungere quanto prima il Capo, poiché le condizioni meteorologiche sono favorevoli per ancora uno due giorni. La navigazione sarà solo di giorno, la notte ci fermeremo in località protette, perché tutta la zona è piena di scogli affioranti, secche e altre difficoltà non segnalate da fari o altro e pertanto anche lui, pur essendo nato a Ushuaia e conoscendo i luoghi fin da ragazzo, non naviga con il buio. D’altra parte in questo periodo le ore senza luce sono davvero poche.

Passiamo quindi la notte a Puerto Williams, che scopriamo essere il paese (pueblo) più a sud del mondo. Si tratta, in effetti, di un gruppo di casupole in lamiera abitate da militari cileni e pochi pescatori e altri dediti a piccole attività. Il ristorante, bar etc del posto chiamato “Los dientes de Navarino” dal nome della catena montuosa, molto suggestiva, che caratterizza l’isola, è gestito da una signora che cucina improbabili piatti di pesce su un fornello a due fuochi.

In mattinata, concluse le formalità doganali, partiamo, sospinti sempre dal vento gelido che scende dai ghiacciai delle Ande, alla volta di Puerto Toro, dove passeremo la seconda notte. Giunti nel pomeriggio, scopriamo che si tratta di un piccolo molo in una caletta ridossata, circondato di una decina di casupole in lamiera abitate da pescatori e dalle ultime due discendenti degli indigeni dell’arcipelago e che vanta il primato di ”insediamento abitato più a sud del mondo”!

Abbiamo comunque l’occasione di gustare una centolla, sorta di granchio, prelibatezza destinata ai migliori ristoranti di New York, che noi otteniamo, dal pescatore locale, in cambio di due bottiglie di vino.

Domani è il gran giorno. Con Jorge studiamo la rotta: quella più breve passa per il canale fra l’isola di Navarino e l’isola Lennox, che è zona militare cilena, interdetta alla navigazione da diporto.

Se però passiamo di mattina molto presto il marinaio di vedetta se la dorme, sostiene Jorge.

Decidiamo di tentare.

Tutti in cuccetta, ma, sarà il fuso, sarà l’emozione, non riesco a chiudere occhio. Gli altri secondo io fingono di dormire: con il Capo a poche ore non è possibile.

Alle prime luci partiamo con un vento che dopo poco rinforza facendoci attraversare velocemente il canale proibito senza intoppi.

Non ci resta che attraversare la baia Nassau, e poi saremo all’isola del Capo.

Il cielo si copre, il vento cala e tutto assume una colorazione grigia, spettrale, ma affascinante.

Non avremo letto troppi libri di Coloane?

Invento scuse improbabili per non mollare il timone, gli amici fingono di crederci e mi lasciano il privilegio di timonare al momento fatidico: sono troppi anni che gli rompo le scatole con Capo Horn, sperano in un periodo di tregua in cambio.

Doppiata l’estremità dell’isola ci avviciniamo al Capo da est verso ovest con 30 nodi di bolina,

Al momento fatidico il guardiano del faro cileno, preso il rilevamento del veliero, si annota i nomi dell’equipaggio comucatigli per radio: è fatta, siamo nel libro degli Hornier.

Continuiamo intenzionati a circumnavigare l’isola, ma il vento aumenta mentre l’onda cresce, diventando sempre più grossa, ormai è quella del Pacifico.

Quando il vento è stabilmente sopra i 40 nodi decidiamo di ritornare e passare la notte in una cala ridossata dell’isola alle spalle del Capo.

Con 50 nodi di vento in poppa raggiungiamo velocemente la meta, ma abbiamo difficoltà a entrarvi perché il vento è di prua e anche con l’aiuto del motore è difficile da risalire. Finalmente riusciamo a ancorarci, con due ancore, e passiamo una notte abbastanza tranquilla; rifocillati dai manicaretti di Cris.

Il giorno dopo partiamo presto per riattraversare la baia Nassau, sempre avvolta nel grigio, praticamente senza vento, ma con il barometro che è sceso a livelli da noi mai visti, tanto che ci affrettiamo a fotografarlo. Jorge è molto tranquillo, noi un po’ meno.

Nel pomeriggio il vento rinforza, ma siamo ormai in vista dell’isola Lennox, dove decidiamo di ancorarci. L’isola è deserta, tranne per un insediamento militare cileno, presidiato da un marinaio che vive qui con la famiglia, moglie e due figli di 5 e 11 anni.

Ci ancoriamo nella baia di fronte alla sua casa, sempre con due ancore, perché il vento cresce.

Nella notte il vento aumenta, supera i 50 nodi, il mare, illuminato da un chiarore diffuso è completamente bianco di spuma. Le ancore a causa del poco fondo non tengono. Siamo costretti a abbandonare le cuccette per tentare di riancorarci. E’ quasi impossibile manovrare la barca data la forza del vento, nessuno di noi parla anche perché il vento e la spuma impediscono quasi di respirare. E? Chiaro che le ancore su questo fondo e in queste condizioni non possono tenere, già ci immaginiamo una notte al largo nella baia, fuggendo il vento, quando Jorge decide di tentare un attracco al moletto fatiscente del la marina cilena, rischiando di rovinare la bella Callas.

La manovra riesce, con una ammaccatura sullo scafo in acciaio del veliero e grazie alle doti (ancora) atletiche del nostro Giorgio che con un balzo riesce ad assicurare velocemente una cima al molo prima che il vento allontani la barca.

Riprendere sonno è difficile sia per l’adrenalina che per il vento che continua a ululare per tutta la notte.

Il giorno seguente è l’ultimo giorno dell’anno, per radio ci informano che Puerto Williams è chiuso per il forte vento che spazza tutto il canale di Beagle e pertanto decidiamo di non muoverci e di scendere a terra.

Subito siamo accolti dai due ragazzi cileni, che dimostrano una inattesa conoscenza del campionato italiano di calcio, spiegata dalla presenza di una antenna parabolica.

Tento di stringere amicizia con Sasha, una cucciola di Husky, che continua a abbaiarmi a distanza di sicurezza, ma che mi segue nelle mie esplorazioni dell’isola.

Timidamente compaiono anche i genitori, con i quali decidiamo di condividere il cenone di capodanno. Dalla barca sbarchiamo le carni per l’asado e la signora prepara dolci e insalate.

E’ uno strano veglione, tutto alla luce del sole, indimenticabile.

Quando finalmente fa buio andiamo in barca per il brindisi di mezzanotte.

All’alba del 2000 abbiamo ripreso la nostra navigazione, con il vento ormai calato, che dopo altri tre giorni nel canale di Beagle tra pinguini, albatros e leoni marini ci ha ricondotto a Ushuaia.

Roma, aprile 2.000

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