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CAPITOLO QUINTO
dove si dimostra che non basta trovarsi in patria per
scapolare i guai
Tornai dopo qualche giorno e cominciò il viaggio
sul patrio mar.
Dovete sapere che in Sicilia a metà settembre la gente va
ancora in maniche corte e le spiagge sono ancora affollate; da sempre, eccetto
quell'anno.
Già l'indomani dell'ultima strizzatina alle mie visceri, il cielo
si oscurò, nuvolacce nere cominciarono a rumoreggiare e per fare cosa gradita al
sottoscritto, praticamente cominciò l'inverno.
Ma stavolta mi ero organizzato
alla grande: la moglie mi seguiva in macchina; stabilivo la tappa successiva e
la sera ci si incontrava nel porto designato e si dormiva in barca.
Ma
,giusto per tenersi in allenamento, in verità, una volta su due non ci si
incontrava affatto, vuoi perchè a causa del maltempo ero costretto ad atterrare
altrove dal luogo convenuto, vuoi perchè il luogo convenuto non aveva porto,
vuoi perchè più semplicemente non lo trovavo a causa della scarsa visibilità,
ogni sera erano patemi d'animo e lungaggini a non finire.
Una nostra amica
veneta era venuta in Sicilia in ferie e si era aggiunta alla comitiva autovelica
con l'ingenua convinzione di potersi divertire. Fu lei la protagonista del primo
fantozziano episodio.
L'avevo imbarcata per una tappa che, seppur col cielo
plumbeo, doveva essere tranquilla.
Accadde invece che la poverina soffrì il
mal di mare, il quale mare quel giorno si mise senza preavviso al tempo"andante
con moto".
Decisi quindi di sbarcarla prima, in una località nei pressi di
Licata, dove la mia nuova fiammante carta nautica siciliana riportava esserci un
piccolo riparo .
Accosto quindi per farla scendere ad un moletto lillipuziano
con sopra gente del posto che, dalla faccia che faceva, dimostrava di non
avere mai visto avvicinarsi un barchino a vela come il mio a quell'attracco
fatiscente.
Il moletto mancava completamente di alcunchè somigliasse ad una
bitta o similaria,per cui mi risolvo di fare un trasbordo volante.
E volante
fu...nel senso che Silvana volò in acqua.
Mentre infatti si accingeva a
balzare a terra un'ondicina cattivella solleva la barca e la deposita
graziosamente su un bel lastrone di pietra che stava proprio sotto il moletto,
poggiandola sul bulbo e sbilanciandola bruscamente, trasformando così la già
ardua impresa della mia amica in un tuffo all'indietro.
Naturalmente io avevo
un bel da fare per tirare fuori dall'impiccio la mia non più dislocante
barchetta e inoltre dovevo usare il motore, per cui ingiungo alla naufraga di
togliersi di torno e di raggiungere a nuoto uno scoglietto che stava a qualche
metro di distanza.
Cosa che la poverina, che non sapeva quasi nuotare, fece,
remando in verticale come di solito fanno i candidati
all'annegamento.
Sfinita da quei cinque metri di percorso oceanico, la nostra
eroina non vide l'ora di abbracciare calorosamente lo scoglietto succitato, il
quale, bontà sua, era costituito interamente da una colonia di meravigliosi
ricci di mare che gradirono l'abbraccio affettuoso e ricambiarono con
quindicimila aculei che trafissero l'incauta nuotatrice dal collo fino
all'alluce del piede.
Colma di tanta generosità la nostra restò appollaiata
sullo scoglio, senza profferire verbo fino a quando, con l'aiuto degli
indigeni che nel frattempo si erano resi parte attiva del dramma, ancorai alla
meglio la barca e accorsi in aiuto alla sventurata.
Io, di spine di ricci nel
corso della mia vita ne avevo tolte dalle mie e altrui carni a milioni.
Ma in
trent'anni.
Calcolai che me ne occorrevano altrettante per estirpare quella
foresta che spuntava dalla pelle di Silvana, facendole assumere l'aspetto di una
riccia con sembianze umanoidi.
Allarmatissimo decido quindi di trasferirla a
terra e cercare un pronto soccorso.
Senonché il soccorso in quella landa
desolata non era affatto pronto.
Ma accadde che, sparsosi la voce nel
paesotto, un centinaio almeno di vecchiette, tutte rigorosamente vestite di
nero, armate di olio di oliva caldo e aghi di tutte le misure, di tenaglie e
pinzette, attorniarono la mia singhiozzante amica che fu amorevolmente adagiata
sul letto di una casa ospitale e per tutta la giornata,tra ululati di gioia e
confortanti nenie di sabba di streghe, svestirono la malcapitata dal suo
echinodermoso abito nero.
Silvana ripartì qualche giorno appresso
fasciata come una mummia ...la rividi solo dopo 10 anni.
Continuammo a
fare tappe giornaliere che però a causa del maltempo non andavano in media oltre
le 15-20 miglia al giorno e io cominciavo a disperare di arrivare prima o
poi a Catania.
Arrivai alla conclusione che quel sistema di incontri
serali, con tutti i disguidi che nascevano, rallentava la già faticosa marcia e
la preoccupazione di non preoccupare mia moglie, che ogni giorno mi vedeva
partire senza la certezza di rivedermi la sera, era un ulteriore fardello e
allungava i tempi morti del viaggio, per cui rispedì macchina-moglie a casa e
decisi di cavarmela da solo.
A Gela il maltempo si placò.
Mi riposai un
giorno intero e la sera, di nuovo tiepida e stellata, mi invitava a fare la
prima navigazione notturna.
Il faro di Scoglitti lumeggiava chiarissimo nella
notte, dall'altra parte del golfo di Gela a poco più di una quindicina di
miglia.
Una leggera brezza al traverso sembrava assicurare una navigazione
tranquilla, avevo anche dormito durante la giornata, per cui mi risolsi...vela
pura in notte tardoestiva.
Un sogno...le prime ore li godetti
veramente.
Ma essendone passate un pò troppe di ore, cominciò ad
impensierirmi il fatto che la luce del faro era tale e quale quella della
partenza, nonostante che la barca procedesse abbastanza bene.
Ora
l'esperienza di tutti i giorni mi induceva a ritenere che più ti avvicini a
qualcosa, più la qualcosa deve ingrandirsi e siccome il faro si ostinava ad
apparirmi costantemente uguale a se stesso, cominciai a congetturare di correnti
contrarie.
Dopo quattro ore ero allarmato, non c'era luna ed era veramente
buio, solo quel puntolino che ammiccava enigmaticamente.
Ad un tratto con la
coda dell'occhio...vvvrrrummm...un'ombra nera, immensa, sfreccia alla mia
sinistra rasentando la barca, seguita lestamente da un'altra ancora più
sinistra, alla mia destra. "Uccelli enormi....bestie arcane uscite dalle
tenebre del mare per punire l'incauto navigatore che ha sfidato la sacralità del
mare notturno"
Credo che tutti i mostri delle mitologie e delle leggende di
cui avevo letto abbondantemente, attraversarono in un baleno la mia fantasia
eccitata.
Spaventatissimo afferro la mia torcia subacquea, modello Vega, a
cui si era rotto il pulsante di accensione e che io avevo riparato mettendo al
suo posto un bel chiodo, e proprio nell'attimo in cui con concitazione spingo
l'improvvisato interruttore, sbbrrammm....la pala del timone si solleva
avvisandomi di aver toccato il fondo, il colpo secco mi sbilancia, mi catapulta
con tutto il mio peso contro la paratia della cabina e il famigerato chiodo mi
trapassa letteralmente il pollice.
Dolorante e sanguinante, illumino la zona
: ero in mezzo ad una selva di faraglioni, pinnacoli e spuntoni di roccia che mi
circondavano per 360 gradi e attraverso i quali ero passato con soave baldanza
accompagnato dalla allucinata visione di mitologici volatili.
Ero
arrivato a Scoglitti e in quell'istante seppi perchè si chiamava
così...
Il dolore al dito era davvero lancinante, ma era sovrastato dalla
angoscia del peggio, sicchè mi precipitai a calare l'ancora che andò giù per
un pelo d'acqua sotto la prua assieme ad un quartino di litro del mio sangue,
poi ammainai la randa, tentai di dare conforto al mio dito ululante e aspettai
l'alba.
Appena arrivò la luce, mi resi conto di essere a qualche centinaio
di metri dall'imbocco del porto in mezzo ad una secca paurosa e solo una
fortuna sfacciata poteva avermi accompagnato fin li senza fracassare
tutto.
Il timone era letteralmente schizzato fuori dalle femminelle, rompendo
il fermo dell'agugliotto che era volato in mare. La barca con l'ancora sulla
verticale della prua,era immobile in uno specchio d'acqua poco più grande della
sua lunghezza; non c'era un alito di vento per cui mi risolsi di andare a
cercare il fermo dell'agugliotto che doveva essere nei dintorni. Mi tuffai
mettendo a dura prova il mio martoriato dito, ritrovai il mio prezioso pezzo
d'acciaio che luccicava indifferente accanto al bel pietrone che aveva dato lo
stop alla mia veleggiata notturna.
La pala :una solenne ammaccatura sul bordo anteriore.
Poi, facendo lo slalom, usci dalla petraia e mi andai ad infilare in quel desolato
porticciolo dall'ammiccante faro traditore.
In giornata mi spuntò un febbrone cavallino che mi suggerì con fermezza una
opportuna sosta sanitaria.
Il dito si era infettato e nel delirio, quella notte, sognai di battaglie aeree
tra uccelli bianchi, a forma di barche con tanto di randa e trinchetta, che
volteggiavano e lottavano nel cielo con uccellacci neri a forma di asteroidi
(qualcuno aveva anche l'aspetto delle mazze da combattimento medievali, con
tanto di aculei e rostri uncinati) .
Tra planate e cabrate sfrecciavano sfiorandosi le eterne schiere del bene e
del male.
Quando mi svegliai ebbi la certezza assoluta di aver avuto la rivelazione definitiva
sulla nascita dei miti, le leggende sul mare e tutta la cosmogonia celeste:
La madre è sicuramente la strizza, sul papà non mi pronuncio.
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