NUMERO: 1836311903 | Lug - Dic 2012
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la fine di odori e ricordi (che mi è sfuggita dal testo di farsi la barca)

Il nome della mia non cÂ’era e lui scherzava e rideva per il mio ritorno, come se il riapparire di unÂ’avventore sancisse la loro perpetua esistenza. Sono uscito con due scatole di chiodi di due diverse lunghezze e le rondelle coniche da ribattere. 

La misura più corta l’ho presa per scaramanzia: essendo utile soltanto per cucire le tavole. La misura più lunga sarebbe servita per unire le ordinate al fasciame in ognuno di quegli spazzi lasciati durante la posa delle tavole.

Ettore ed il vecchio Pietro non ci sono più: c’eravamo conosciuti quando abbiamo messo a secco il Cymba e trascinatolo all’interno dei loro capannoni.

Pietro era il discendente diretto dei maestri dÂ’ascia che fondarono i cantieri Sangermani, girava nei capannoni, attento alla roba e al lavoro dei carpentieri che ormai lo consideravano un vecchio patriarca benevolo.

Nel capannone più grande, sempre in penombra nonostante le grandi vetrate, con il soffittoin legno e tegole a vista, i carpentieri lavoravano sulle barche tra macchie di luce fatte da lampade isolate: legate alle incastellature. Nell’altro capannone scafi rimessati coperti di teli e polvere; a terra le rotaie, quasi scomparse tra la segatura, indirizzavano verso una gigantesca sega circolare usata tempo addietro per ridurre in tavole i tronchi.

Sul fondo del capannone grande un’impalcatura dall’aspetto medievale portava all’ufficio di Ettore, nipote di Pietro. Da l’alto si godeva la vista dei ponti in costruzione e l’andirivieni degli operai sulle impalcature infisse nel terrapieno attorno agli scafi. Ettore aveva sempre vestiti di color marrone; giacche di velluto, pantaloni di fustagna, golf, sempre di tonalità marrone, a volte chiari a volte scuri, anche le dita erano marroni: di nicotina.

Quando arrivavo lo trovavo sempre in mezzo ad un capanello di operai a spiegare, a mandare avanti il lavoro; schizzava incastri e sagome su pezzi di scafo o sulle pareti vicino alle barche. Mi trascinava dietro i suoi giri facendomi notare un’infinità di particolari in costruzione. Nasceva in quei tempi il “Rorolima”: un 15mt di Sciarelli che sarebbe terminato con lo scafo in mogano, lucido, verniciato, e noi a vedere la chiglia ed il dritto di prua in fasce di legno incollate e piegate a vapore. Fu in quei periodi che pensai seriamente di costruirmi una barca sufficientemente grande per viaggiare intorno al mondo. Ho dedicato quell’anno a sapere come fare, a chiedere consigli, disegni, valutare costi e luoghi dove realizzarla e poi assieme alle vicissitudini della vita:Il mondo reale, senza sogni, mi ha portato altrove.

Passarono ancora degli anni prima che sostituissi la Star con il Microchallanger ma, ormai il progetto era sfumato.

Adesso concepisco solo una barca in funzione della possibilità di navigare e mantenerla senza che metta a repentaglio le mie possibilità di sopravvivenza. 5,50mt 600Kg, carrello e un prato o una stalla dove rimessarla quando non posso andare, vetroresina perchè ha bisogno di meno manutenzione e basta uno sprazzo di sole per scappare e metterla in mare. Troppo lavoro ho fatto per tenere assieme la vecchia scialuppa a vela del “Formica”: glorioso veliero in disarmo nella darsena di Viareggio, concessami grazie all’interessamento del nonno.

Gli scafi in legno e tavole sono privilegi cari da mantenere o meglio da amare; se poi si vive lontani dal mare o dai laghi diventano pesanti come le loro zavorre.

M’accorgo di perdermi in fatti passati senza l’urgenza di completare il racconto: sono divagazioni che esprimono l’appagamento d’aver provato a scrivere di una cosa che mi piace. Accade così anche alla costruzione del dinghy che rallenta ogni giorno di più; l’euforia dell’inizio è entrata dentro di me e galleggia nella memoria assieme alle immagini dei giorni impiegati a costruire lo scafo e provoca un’ appagamento che sopisce lentamente gli stimoli necessari a proseguire.

20/03/2009 Franco Favilla
francofavilla@libero.it

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