la fine di odori e ricordi (che mi è sfuggita dal testo di farsi la barca)
Il nome
della mia non cÂ’era e lui scherzava e rideva per il mio ritorno, come se il
riapparire di unÂ’avventore sancisse la loro perpetua esistenza. Sono uscito con
due scatole di chiodi di due diverse lunghezze e le rondelle coniche da
ribattere.
La
misura più corta l’ho presa per scaramanzia: essendo utile soltanto per cucire
le tavole. La misura più lunga sarebbe servita per unire le ordinate al
fasciame in ognuno di quegli spazzi lasciati durante la posa delle tavole.
Ettore
ed il vecchio Pietro non ci sono più: c’eravamo conosciuti quando abbiamo messo
a secco il Cymba e trascinatolo allÂ’interno dei loro capannoni.
Pietro
era il discendente diretto dei maestri dÂ’ascia che fondarono i cantieri
Sangermani, girava nei capannoni, attento alla roba e al lavoro dei carpentieri
che ormai lo consideravano un vecchio patriarca benevolo.
Nel
capannone più grande, sempre in penombra nonostante le grandi vetrate, con il
soffittoin legno e tegole a vista, i carpentieri lavoravano sulle barche tra
macchie di luce fatte da lampade isolate: legate alle incastellature.
NellÂ’altro capannone scafi rimessati coperti di teli e polvere; a terra le
rotaie, quasi scomparse tra la segatura, indirizzavano verso una gigantesca
sega circolare usata tempo addietro per ridurre in tavole i tronchi.
Sul
fondo del capannone grande unÂ’impalcatura dallÂ’aspetto medievale portava
allÂ’ufficio di Ettore, nipote di Pietro. Da lÂ’alto si godeva la vista dei ponti
in costruzione e lÂ’andirivieni degli operai sulle impalcature infisse nel terrapieno
attorno agli scafi. Ettore aveva sempre vestiti di color marrone; giacche di
velluto, pantaloni di fustagna, golf, sempre di tonalità marrone, a volte
chiari a volte scuri, anche le dita erano marroni: di nicotina.
Quando
arrivavo lo trovavo sempre in mezzo ad un capanello di operai a spiegare, a
mandare avanti il lavoro; schizzava incastri e sagome su pezzi di scafo o sulle
pareti vicino alle barche. Mi trascinava dietro i suoi giri facendomi notare
un’infinità di particolari in costruzione. Nasceva in quei tempi il “Rorolima”:
un 15mt di Sciarelli che sarebbe terminato con lo scafo in mogano, lucido,
verniciato, e noi a vedere la chiglia ed il dritto di prua in fasce di legno
incollate e piegate a vapore. Fu in quei periodi che pensai seriamente di
costruirmi una barca sufficientemente grande per viaggiare intorno al mondo. Ho
dedicato quellÂ’anno a sapere come fare, a chiedere consigli, disegni, valutare
costi e luoghi dove realizzarla e poi assieme alle vicissitudini della vita:Il
mondo reale, senza sogni, mi ha portato altrove.
Passarono
ancora degli anni prima che sostituissi la Star con il Microchallanger ma, ormai il progetto
era sfumato.
Adesso
concepisco solo una barca in funzione della possibilità di navigare e
mantenerla senza che metta a repentaglio le mie possibilità di sopravvivenza.
5,50mt 600Kg, carrello e un prato o una stalla dove rimessarla quando non posso
andare, vetroresina perchè ha bisogno di meno manutenzione e basta uno sprazzo
di sole per scappare e metterla in mare. Troppo lavoro ho fatto per tenere
assieme la vecchia scialuppa a vela del “Formica”: glorioso veliero in disarmo
nella darsena di Viareggio, concessami grazie allÂ’interessamento del nonno.
Gli
scafi in legno e tavole sono privilegi cari da mantenere o meglio da amare; se
poi si vive lontani dal mare o dai laghi diventano pesanti come le loro
zavorre.
MÂ’accorgo di perdermi in fatti passati senza
lÂ’urgenza di completare il racconto: sono divagazioni che esprimono
l’appagamento d’aver provato a scrivere di una cosa che mi piace. Accade così
anche alla costruzione del dinghy che rallenta ogni giorno di più; l’euforia
dell’inizio è entrata dentro di me e galleggia nella memoria assieme alle
immagini dei giorni impiegati a costruire lo scafo e provoca unÂ’ appagamento che
sopisce lentamente gli stimoli necessari a proseguire.
20/03/2009 Franco Favilla
francofavilla@libero.it
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